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Che fine farà l’università italiana? La domanda è tutt’altro che peregrina. Diminuzione su grande scala dei fondi pubblici, calo degli iscritti, assenza di strategie atte a raccordare l’offerta formativa con le esigenze del mercato del lavoro, percezione da parte dei giovani che nella grande maggioranza dei casi la laurea non costituisce più uno strumento per l’ascesa sociale. Fatti ormai noti all’opinione pubblica che lasciano intravedere il declino.

Chi ha dedicato all’insegnamento e alla ricerca universitari la propria vita assiste a questo disastro, peraltro annunciato, con tristezza mista a irritazione. Perché siamo arrivati a questo punto? La colpa va attribuita in primo luogo alla corporazione accademica o alla tradizionale insensibilità del nostro mondo politico nei confronti dell’istruzione di ogni grado, e della cultura in genere? Oppure le colpe – come sembra più plausibile pensare – debbono essere condivise nella stessa misura, giacché da sempre in Italia politica e accademia vivono in uno stato di osmosi?

Quando tali problemi vengono posti lo sguardo, di solito, si volge subito all’estero. Altri Paesi europei, e l’esempio più citato è la Germania, sono in effetti più virtuosi poiché i loro governi continuano a investire molto nell’istruzione e nella ricerca. Inutile ripetere cifre e statistiche ampiamente riportate da stampa e mass media in genere. I nostri ben noti complessi d’inferiorità sono ancor più ingigantiti dalla constatazione che, altrove, l’investimento sulla formazione del capitale umano è ritenuto prioritario perché, ovviamente, costituisce una sorta di assicurazione sul futuro.

Eppure la crisi, a differenza di quanto in genere si pensa, non è solo italiana. Segnali di sofferenza sempre più evidenti giungono per esempio anche da nazioni che nell’immaginario collettivo sono all’avanguardia. Casi tipici il Regno Unito e gli USA.

In Inghilterra le iscrizioni calano a causa della tassazione troppo elevata, e in quel contesto si assiste a un fenomeno curioso. Aumentano gli iscritti stranieri e diminuiscono al contempo quelli britannici. Negli Stati Uniti il problema è ancora più serio. E’ scoppiata una vera e propria “bolla finanziaria” dovuta al sistema dei prestiti d’onore. In altri termini moltissimi studenti americani, dopo aver concluso il loro percorso formativo, non trovano lavoro e non riescono, quindi, a restituire alle banche il finanziamento ricevuto all’atto dell’iscrizione. Il fenomeno ha assunto proporzioni tali da preoccupare lo stesso governo federale, che ha già dovuto affrontare negli ultimi anni bolle immobiliari e finanziarie di vario tipo. E’ curioso, a tale proposito, che in Italia qualcuno pensi di risolvere il problema imitando il sistema americano dei prestiti d’onore agli studenti, il cui fallimento è evidente.

Altro fatto che accomuna l’Italia a tante nazioni occidentali è la tendenza dei giovani a “saltare” il gradino universitario avvicinandosi al mercato del lavoro subito dopo aver terminato le scuole superiori. Una riscoperta, insomma, dei “mestieri” tradizionali che non necessitano di istruzione a livello accademico. Ciò significa che i giovani stanno abbandonando l’illusione della laurea intesa come chiave per accedere a posizioni di prestigio. Molti di loro hanno compreso le leggi del mercato. Si privilegiano occupazioni considerate più umili ma, nello stesso tempo, ben retribuite a causa dello squilibrio tra domanda e offerta di lavoro.

Quali le reazioni degli ambienti universitari? Da noi sono praticamente nulle, a parte le lamentazioni e le critiche rivolte ai governi, tecnici o meno, e di qualsiasi colore politico. Negli Stati Uniti, al contrario, le università – e soprattutto quelle più prestigiose – stanno puntando con grande decisione sui corsi online. Da noi destano sospetti dopo l’esperienza della pandemia, ma la caratteristica di tali corsi è quella di essere fruibili nel mondo intero, e non soltanto negli USA. Docenti prestigiosi mettono a disposizione lezioni in rete che possono essere seguite da allievi indiani e argentini, pakistani e – perché no? – italiani. E’ sufficiente che lo studente abbia un PC e può collegarsi quando vuole, eseguendo quando gli pare esercizi e test postati online dal professore. Al termine dovrà superare l’esame conclusivo ottenendo una certificazione di fine percorso.

Alto il numero degli abbandoni, ma non dissimile da quello riscontrabile nei corsi normali dove il docente insegna in carne e ossa. La questione, tuttavia, è un’altra. Quanto vale un diploma di laurea conseguito in questo modo? E’ sufficiente per trovare lavoro? Non sembra. Chi vuole risultati concreti deve in seguito completare gli studi nello stile tradizionale, e tale sembra essere l’obiettivo delle summenzionate università americane. Attrarre studenti, soprattutto stranieri, fornendo loro una sorta di “aperitivo” propedeutico al pranzo vero e proprio.

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