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La risposta di Israele all’attacco iraniano, del 1° ottobre scorso, è stata calibrata, mirata, verso obiettivi militari e complessi industriali della difesa selezionati.
L’operazione era stata fatta conoscere in anticipo tramite gli stati arabi della regione. L’attacco ormai nell’aria era inevitabile e dovuto per stabilire e riequilibrare la deterrenza reciproca.

Teheran ha minimizzato molto i danni subiti. Ma i raid israeliani hanno seriamene danneggiato importanti siti di gestione della difesa aerea e infrastrutture di produzione di droni e missili. In quest’ultimo caso c’è convinzione della diminuzione delle capacità dell’Iran di produrli e, quindi, anche inviarli ai suoi delegati nella guerra contro Israele nonché alla stessa Russia.

Le reciproche dichiarazioni e contro risposte, tra Tel Aviv e Teheran, pur rientrando nella dura dialettica del “Poligono Mediorientale” non accennano alla de-escalation. Non vanno sottovalutate e tocca alle diplomazie, ufficiali e sotto traccia, lavorare per far abbassare i toni. Ne a Israele e ne a l’Iran conviene andare oltre una certa misura e gli americani faranno di tutto per evitare il superamento della soglia di non ritorno.

Mentre il confronto tra i due nemici regionali fa innalzare le tensioni e le preoccupazioni, proseguono le operazioni “Spade di ferro” nella Striscia di Gaza e “Freccia del Nord” nel Libano meridionale. La decapitazione dei vertici politici e militari di Hamas, di Hezbollah e della Jihad Islamica palestinese non ha portato ad un rallentamento delle attività dell’IDF (Israel Defense Forces).

Israele con l’uccisione di Sinwar ha eliminato quello che era il suo ricercato numero uno in Medio Oriente. Era l’architetto del mortale attacco terroristico del 7 ottobre ’23, viveva e si muoveva come una talpa nei cunicoli sotterranei di Gaza. Era spietato e diceva che la causa palestinese valeva bene la morte di civili. La sua successine non si sottrae al gioco delle previsioni su chi lo sostituirà. Potrebbe essere un’unica figura oppure due con spartizione di compiti tra il ruolo politico e militare. In ogni caso, che sia il singolo o la coppia, ricorre sempre un nome che è quello Khalil al Hayya.

Per ora sembra che l’orientamento sia quello di lasciare la guida dell’organizzazione ad un Comitato Direttivo, retto da cinque membri, con sede nella capitale del Qatar. In attesa poi delle elezioni previste a marzo prossimo. Il Comitato si era già costituito ad agosto, dopo la morte di Haniyeh a Teheran. Doveva rendere più veloce il processo decisionale a fronte delle difficoltà di comunicare con Sinwar nella Striscia prima che morisse. Nella successione definitiva non si potrà non tenere conto della voce dell’Iran, dato che è uno dei principali sostenitori di Hamas, e forse neanche del Qatar perché è li che vivono i capi dell’organizzazione. 

Hamas dopo un anno di guerra risulta fortemente depotenziata militarmente ma, nonostante la decapitazione della governance, è ancora in grado di compiere agguati ed azioni di terrorismo urbano, e lo si vede. L’organizzazione palestinese ha ancora nelle mani degli ostaggi per i quali Israele deve fare ogni possibile tentativo per riportarli a casa. E purtroppo su di loro Hamas giocherà una partita spietata, per questo li aveva rapiti il 7 ottobre.

Se da un lato c’è il dramma degli ostaggi dall’altro c’è anche la tragedia dei civili di Gaza. Oltre 42.000 morti e migliaia di feriti a cui bisogna aggiungere la disgrazia umanitaria per chi vive in quel territorio su cui incombe il pericolo di carestia. Ce necessità di cibo, medicine e vaccinazioni per i bambini che rischiano la poliomielite. Il virus della Polio si sta annidando nella precarietà delle condizioni igieniche. Su questa situazione pesa molto anche la decisione di Israele di bandire da Gaza l’agenzia ONU (UNRWA).

A Doha sono in atto tentativi di negoziazione con i mediatori americani, egiziani e qatariani, per giungere ad una tregua che possa sia far riportare a casa gli ostaggi sia alleviare le sofferenze dei civili.  Si parla di una tregua limitata di due giorni per il ritorno di quattro ostaggi ed il rilascio di prigionieri palestinesi. Dopo si potrebbe avere un accordo più ampio. Si discute anche di una tregua in Libano. Qualunque accordo più strutturato si potrà raggiungere solo dopo le elezioni americane del 5 novembre prossimo.

Su un cessate il fuoco permanete si accendono dibattiti interni ad Israele. Lo stato ebraico, ma non solo, è convinto che la sopravvivenza politica e militare dell’organizzazione palestinese non garantisce e ne garantirebbe una fine duratura della guerra ma sarebbe solo temporanea.
Darebbe ad Hamas la possibilità di riorganizzare le sue capacità, gli consentirebbe di minacciare ogni volta Israele, i suoi cittadini ed il suo territorio.

A rendere più forti le preoccupazioni di Tel Aviv sarebbe anche il tentativo di Hamas, tramite la mediazione russa, di accordarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Lo scopo sarebbe la realizzazione di un governo nazionale in Palestina per amministrare la Striscia di Gaza nel post guerra.
Il pericolo concreto e che ciò consentirebbe ad Hamas di restare viva e riaffermarsi progressivamente in futuro. C’è da chiedersi se a scoraggiare l’ANP, da un accordo che potrebbe rivelarsi poi una trappola, è sufficiente il ricordo del colpo di mano di Hamas del 2007 che la scacciò dalla Striscia.

Anche in Libano la situazione desta preoccupazione. Israele non accenna a rallentare le attività operative sul campo. C’è il timore che si possano innescare un serie di conflitti interni tra sciiti e sunniti, cristiani e musulmani. Avanza la paura di un Libano intrappolato nelle sue realtà fatte di sette e lotte interne.  Qualcosa già visto in passato, nel 1975, quando scoppiò una guerra civile che si protrasse fino al 1990.
Ad accendere le faide potrebbe essere la fuga degli sciiti, vicini ad Hezbollah, che dal sud del Libano si muovono, sotto la pressione dell’IDF, verso i villaggi più a nord. Li vivono drusi, sunniti, musulmani e cristiani che fino ad ora avevano trovato un equilibrio.

La situazione che si va delineando potrebbe mettere il Libano sull’orlo di un precipizio. Per evitare ciò non basterebbe l’impegno a far rispettare la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. Se ciò non è avvenuto prima, a partire dal 2006, non accadrà ora che Hezbollah è in guerra ed ha il suo nuovo leader, Naim Quassem, che si trova al sicuro a Teheran dal 5 ottobre scorso. Il nuovo capo Hezbollah già tuona con le sue invettive dalla capitale dello Stato Islamico.

Ma l’ultima cosa che serve al Libano in questo momento è un’altra guerra.
E il paese dei cedri ma ancor di più l’intera regione assomiglia sempre più a un puzzle di difficile soluzione.

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