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Il Napoli regala praticamente un tempo al Monza. Poi si ricorda che tiene ancora lo scudetto cucito sulla maglia. Il tricolore va onorato con dignità e rispetto, innanzitutto verso sé stessi. E la ribalta nell’arco di nemmeno dieci minuti, ricorrendo a quelle proverbiali caratteristiche che non più tardi di un anno fa le consentirono di dominare letteralmente il campionato: intensità, forza mentale e qualità superiori alla media. Forse un modo sin troppo semplicistico di riassumere la partita. Ma ci sono dinamiche talmente brutali nella loro essenzialità, da non potere essere raccontate diversamente.

Confermando la validità di uno stereotipo radicato nella stagione maledetta dei Campioni d’Italia (sic…), gli azzurri approcciano la prima frazione con pigrizia e sufficienza. I ritmi sono davvero troppo blandi e compassati per pensare di poter mettere in difficoltà una squadra che pressa e rincorre chiunque, sottraendo agli uomini di Calzona tempo e spazio vitali per ragionare efficacemente con il pallone tra i piedi.

Assente il Napoli per un tempo

Tatticamente, il piano gara di Palladino con cui ha spento le velleità offensive dell’avversario è stato eseguito (quasi..) alla perfezione: 4-2-3-1 che in fase di non possesso si trasformava in una difesa a cinque. Zerbin scalava all’indietro, mentre Caldara scivola come “braccetto”. Nel frattempo, Colpani si accentrava, impedendo a Lobotka di giocare liberamente nella propria trequarti, mentre Gagliardini e Akpa Akpro si accoppiavano alle mezzali partenopee. Una strategia anche estrema, che però ha impedito agli ospiti di sviluppare comodamente il gioco.

Dopo un primo tempo in cui il Monza ha letteralmente cancellato dal campo il Napoli, ci ha pensato Politano a invertire il trend. Dapprima ha riciclato una seconda palla per Anguissa, e sul conseguente cross Osimhen ha dimostrato perché in certe occasioni la forza brutale e primordiale trionfi sulla tecnica pura. Quindi Matteo s’è messo in proprio, dando una spolverata di abilità fondamentali a un match fino a quel momento ingessato e privo di alcuna bellezza. Un tiro al volo leggendario, nato da una postura perfetta, arricchita dal naturale impatto piede-palla, che ha fatto finire l’attrezzo a morire semplicemente sotto l’incrocio dei pali.

La capocciata del nigeriano certifica la tesi di Fabrizio de Andrè: dal letame nascono i fiori. Effettivamente, la prestazione del centravanti azzurro è stata piena di situazione “sporche”. In cui Victor ha dovuto interpretare il ruolo sobbarcandosi un surplus di lavoro oscuro. Nondimeno, preziosissimo. Del resto, nel primo tempo è sembrato l’unico a sapere cosa fare: mancando la verticalità, il numero nove svuotava il cono di luce centrale con lunghi tagli verso l’esterno. Utilizzando il corpo per proteggere il pallone spalle alla porta, in mezzo a un mucchio di maglie biancorosse, che l’accerchiavano famelici a caccia della palla.

Inseguendo le Coppe

Adesso spetta a Calzona capire come mai Ngonge è apparso meno pronto a rispondere positivamente alle richieste dell’allenatore rispetto a Politano. Sicuramente nei 45’ iniziali è venuta meno la capacità di manovrare ai fianchi il Monza nella zona di rifinitura, mancando le sovrapposizioni di Di Lorenzo. Nel secondo tempo, infatti, è bastato stimolare il capitano ad andare in ampiezza. Un movimento funzionale a consolidare il possesso nella metà campo altrui. Trovando al contempo gli spazi per costringere Zerbin ad abbassarsi notevolmente, correndo all’indietro a copertura della profondità, per assorbire proprio gli inserimenti di Politano.

Insomma, pur continuando a veicolare nei suoi tifosi una sgradevole sensazione di fragilità strutturale nella fase di non possesso, in questo finale di stagione il Napoli può continuare a inseguire un posto in zona Coppe, seppur nella meno nobile tra le competizioni Uefa. Una vittoria quindi che ha un valore inestimabile per la classifica.

E chissà che la soluzione per superare i rimpianti relativi a un’annata che poteva andare in una certa maniera se solo tutti i protagonisti avessero avuto continuità prestativa, oltre a nessun calo di tensione emotiva, non possa essere quella di dare centralità ai giocatori maggiormente creativi. In grado di ribaltare le partite con la loro sensibilità tecnica oppure in virtù della proverbiale capacità realizzativa negli ultimi sedici metri.

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