di Giuseppe Esposito
All’Ayatollah Khamenei, guida suprema del paese, non sono piaciute le dichiarazioni dell’eminente religioso sunnita Moulan Abdol Hamid fatte a favore dei dimostranti. Per mettere le cose in chiaro ha inviato nella provincia del Sistan una delegazione del Consiglio per la direzione delle preghiere del venerdì guidata da Mohammad Javad Haj Ali Akbari. Il rappresentante del regime doveva persuadere Abdol Hamid a non criticare il potere centrale ma sembra che il tentativo sia fallito. Il religioso ha continuato a biasimare il regime. Lo ha accusato di usare la repressione anche come forma di discriminazione nei confronti dei sunniti del Sistan e Beluchistan.
L’invio della delegazione è stato anche un monito nei confronti dei rappresentanti locali del potere centrale di Teheran. Questi ultimi non avrebbero saputo gestire, con determinazione, le proteste in quella parte Sud Est del paese
Intanto nella capitale del paese sono state emesse le prime sentenze nei confronti di alcuni dei manifestanti arrestati. Tra le condanne c’è anche quella a morte per uno di loro. Secondo il tribunale, è accusato di aver appiccato il fuoco ad un edificio governativo. Con queste condanne si apre una fase repressiva ancora più dura, perché accompagnata da sistemi punitivi intimidatori e dimostrativi. Ma questo non basta per fermare le proteste. Dopo la leggera flessione della scorsa settimana, infatti sono riprese con forza in concomitanza dell’anniversario dei fatti del “Bloody November” del 2019.
I cittadini scendono in piazza e nelle strade noncuranti della loro incolumità. E nonostante la brutale intransigenza del regime, scagliano la rabbia sui simboli e le immagini del potere. Le foto di Khamenei, del presidente iraniano e del capo delle guardie rivoluzionari vengono bruciate al grido di “morte al dittatore” e “libertà”. Ancora più significativo è l’incendio appiccato alla casa natale, ora museo, dell’ex leader supremo iraniano Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Il susseguirsi degli eventi fa pensare ai possibili effetti sociali. L’ex presidente riformista Mohammad Khatami, pur affermando che non è né possibile né auspicabile il crollo dalla Repubblica Islamica, è preoccupato perché un mancato riordino del regime potrebbe portare al “collasso sociale”. L’aumento della violenza e la complessità della situazione socioeconomica sarebbero dei segnali premonitori.
I giorni passano e le proteste si indirizzano sempre più verso specifici obiettivi. Iniziano ad affermarsi capacità di pianificazione e coordinamento, locali e su scala più estesa. Ciò presuppone presenza di leader e movimenti capaci di organizzarsi e programmare. La distruzione dei simboli che richiamano la rivoluzione del 1979 indica che siamo nella fase di controrivoluzione. Il regime sembra averlo percepito e, per sedare le manifestazioni nelle aree più calde mette, in campo anche le forze di terra dell’IRGC. Da qui in poi non c’è una via di mezzo tra regime e manifestanti. Se prevale il primo ci sarà uno stato monolitico tipo Cina se vince la protesta c’è speranza di democrazia.