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Il premier giapponese Shinzo Abe, ucciso da un attentatore, si recava spesso al celebre santuario scintoista di Yasukuni, situato nel centro di Tokyo. Santuario controverso poiché in esso si rende onore a tutte le anime dei soldati giapponesi caduti nel corso del secondo conflitto mondiale. Ogni visita scatenava un putiferio con accuse di revanscismo e di rinascita del militarismo rivolte al Giappone. Abe tuttavia non teneva conto di tali reazioni. Del resto, i suoi predecessori, per esempio Junichiro Koizumi nel 2006, si comportavano allo stesso modo, visitando di persona il santuario.

Solo che allora la situazione in Estremo Oriente era diversa. Già si sapeva che la Cina stava riarmando in modo massiccio. Non forniva però palesi segnali di aggressività, limitandosi alla solita propaganda, e ai più sembrava un Paese moderato in materia di politica estera, intenzionato a garantire l’equilibrio nell’area frenando le intemperanze dell’alleato nordcoreano.

Si è poi visto che così non era. Negli ultimi tempi la Repubblica Popolare non ha esitato a gonfiare i muscoli facendo leva sull’enorme potenziamento tecnologico delle sue forze armate, e sfruttando abilmente il successo della missione lunare con la sonda “Coniglio di Giada”. In rapida successione i cinesi hanno istituito unilateralmente una zona di “difesa” coinvolgendo un vasto spazio aereo internazionale intorno alle isole Senkaku/Diaoyu, oggetto di contesa con il Giappone. E subito dopo unità della loro marina militare hanno assunto – ancora in acque internazionali, giova notarlo – atteggiamenti aggressivi nei confronti di navi americane e di altri Paesi.

Il fatto che la Cina si senta padrona di acque e di spazi aerei che non sono affatto suoi la dice lunga sulle intenzioni dell’attuale leadership di Pechino. Tale atteggiamento ha ovviamente creato grande allarme non solo in Giappone, ma anche in molti altri Paesi dell’area. Tralasciando il caso piuttosto ovvio di Taiwan, recentemente Vietnam, Filippine, Thailandia e Indonesia hanno espresso seria preoccupazione per l’espansionismo cinese. Identica la posizione dell’Australia che, pur relativamente distante, ha in questo scacchiere rilevanti interessi strategici.

Occorre quindi fornire un’interpretazione un po’ diversa delle visite di Abe a Yasukuni. L’ex premier sapeva in anticipo delle reazioni non solo cinesi, ma pure coreane. Tra i caduti onorati nel santuario ci sono anche parecchi ufficiali nipponici di alto rango condannati come criminali di guerra dagli Alleati alla fine della guerra. E Yasukuni rammenta a molte nazioni asiatiche le crudeltà compiute nei loro territori dall’ex esercito imperiale.

Per Shinzo Abe si trattava di un rischio calcolato, e il messaggio trasmesso con le visite al santuario era chiarissimo. Il Giappone, anche se ha forze armate non paragonabili a quelle di un tempo e una costituzione forzatamente pacifista perché scritta dai vincitori americani, non si rassegna a giocare un ruolo di secondo piano in Estremo Oriente. Pur cosciente che la Cina è ormai diventata una potenza globale (anche sul piano militare), dichiara con questo di non avere paura e di essere disposto a lottare se sarà il caso.

Parecchi segnali lasciano capire che l’occidentalizzazione del dopoguerra non ha intaccato l’essenza di uno spirito nazionale basato sull’orgoglio e su tradizioni – anche militari – millenarie delle quali, in fondo, Yasukuni è solo la manifestazione più recente. Piaccia o no, questa è a mio avviso l’interpretazione corretta dei fatti. Oggi la vera aggressività risiede a Pechino, e quella nipponica rappresenta soltanto una reazione.

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