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         Il tema dei rapporti tra lingua nazionale e parlate locali (o dialetti) è senza dubbio di grande attualità. Per una nazione come la nostra, che si è formata tardi rispetto ad altri Stati europei, l’imposizione dell’italiano quale lingua ufficiale nelle scuole e negli uffici ha svolto un prezioso ruolo unificante, consentendo a tutti i cittadini di comprendersi senza problemi, e questo non è un fatto da poco.

D’altra parte la grande varietà delle parlate locali – spesso assai diverse tra loro – è un’eredità importante che ci viene dalla storia. Esse incarnano, per così dire, l’anima profonda delle popolazioni che le usano, tant’è vero che possiedono vocaboli unici, ricchi di significato e molto difficili da tradurre in modo preciso.

In questo senso le parlate locali dovrebbero essere custodite gelosamente e, perché no, insegnate nelle scuole mediante corsi dedicati. Ciò consentirebbe ai giovani di recuperare un patrimonio storico e culturale di grande rilievo. Avvicinandosi, inoltre, al sentire comune dei loro avi.

Va tuttavia chiarito che non si tratta di sostituire la lingua nazionale con le parlate locali poiché, in tal caso, si rischia di avere una vera e propria Babele linguistica, non dissimile da quella esistente nella fase preunitaria dello Stato italiano, e dubito che qualcuno voglia produrre simili effetti.

In realtà si può benissimo risolvere il problema continuando a usare l’italiano come lingua ufficiale nelle scuole, istituendo però dei corsi dedicati alle parlate locali da tenersi in orari ben precisi, e con prove finali che attestino il grado di preparazione degli allievi.

In alcune regioni, come per esempio la Liguria, esiste già qualcosa di simile. Ma l’insegnamento del dialetto viene affidato ad associazioni private formate da volontari, che operano al di fuori del contesto istituzionale. Esse svolgono un ruolo prezioso spesso frenato, tuttavia, dalla mancanza di fondi adeguati.

Occorre inoltre rammentare che in questo campo è pure difficile reperire dei docenti dotati di preparazione adeguata. Insegnare i fondamenti di una parlata locale, infatti, richiede grande conoscenza e sicurezza nell’uso del vocabolario.

Purtroppo, dopo l’Unità conseguita con il Risorgimento, i dialetti sono stati trascurati per favorire la massima diffusione della lingua nazionale. Anche se continuavano ad essere parlati nelle famiglie, si riteneva che nelle sedi istituzionali andassero banditi, appunto per favorire la diffusione quanto più possibile vasta dell’italiano.

Mi limito, in conclusione, a menzionare due problemi. Tutti sappiamo che le giovani generazioni hanno competenze linguistiche spesso scarse, e in questo caso parlo proprio dell’italiano. Ne sanno qualcosa i docenti che correggono i compiti, i quali talora si trovano di fronte a competenze lessicali assai povere.

Ci si chiede dunque se, considerata la situazione, l’istituzione di corsi dedicati alle parlate locali possa causare un ulteriore peggioramento, confondendo le idee degli studenti che già conoscono in modo non certo perfetto la lingua nazionale.

In secondo luogo, è noto che le parlate locali sono tutte legate a una particolare pronuncia. Il problema dell’accento diventa grave quando esso si nota troppo nel caso degli speaker radiofonici e dei giornalisti televisivi. Si può accettare nelle TV locali (entro certi limiti), ma diventa fastidioso quando si tratta dei mass media nazionali.

Questi non sono tuttavia problemi che possano impedire una maggiore attenzione al mondo dialettale. Il nostro patrimonio linguistico è tale, che la preservazione della sua ricchezza e della sua varietà rappresenta un obiettivo culturale di primaria importanza.

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