Il termine “globalizzazione” ha cominciato a diffondersi nella letteratura economica, politica e sociologica dell’Occidente nell’ultimo decennio del secolo scorso. Si intende con esso un processo di estensione globale delle relazioni sociali, tale da coprire l’intero spazio territoriale e demografico del nostro pianeta. Il termine è diventato sempre più importante in concomitanza con l’accelerazione dei fenomeni di integrazione economica e sociale che, secondo alcuni, erano già in atto nel mondo occidentale nel corso della rivoluzione industriale avvenuta fra Settecento e Ottocento.
Vi è stato anchi chi – per esempio Luciano Gallino – ha proposto una definizione più ristretta, intendendo la globalizzazione come “universalismo del mercato”, accentuando così l’aspetto economico di tale fenomeno. Si può anche non concordare del tutto con Gallino quando sostiene che la globalizzazione è il risultato di un piano che alcuni soggetti collettivi hanno progettato consapevolmente.
In realtà la globalizzazione è anche il frutto di una visione del mondo assai influente che ha preso piede in Occidente alla fine del secondo conflitto mondiale. Nel 1945 si riteneva che la pace finalmente conseguita, unitamente allo sviluppo scientifico e tecnologico, avrebbe consentito di raggiungere una prosperità economica complessiva – prima inimmaginabile – entro il quadro del libero mercato.
Le cose non sono andate proprio così, ed è merito di Giovanni Sartori, il cecano dei politologi italiani mancato nel 2017, averlo sottolineato con lucidità. Egli si chiedeva come affrontare e ridurre la disoccupazione, soprattutto giovanile, nelle nazioni occidentali. “La disoccupazione nei Paesi che consideriamo ricchi – scriveva – diventa una conseguenza inevitabile e facilmente prevedibile della globalizzazione mal fatta, male o punto meditata, che abbiamo attuato. Nel secondo dopoguerra l’economia si è man mano divisa in due settori: produttivo e finanziario. Il primo si interessa ai beni tangibili; il secondo è di carta (carta moneta, s’intende)”.
E’ ovvio, proseguiva Sartori, che a parità di tecnologia i Paesi a basso o bassissimo costo di lavoro andranno a “disoccupare” i Paesi ad alto costo di lavoro. E’ questa è la causa primaria, in fondo, della nostra disoccupazione crescente. Questa legge non è senza eccezioni, ma la linea di tendenza, purtroppo, è questa.
Le sue parole mettano il dito nella piaga. Da un lato è naturale che le aziende si muovano nell’ottica del libero mercato cercando di minimizzare i costi e di massimizzare i profitti. E ciò si può fare, per esempio, delocalizzando le attività produttive in contesti territoriali nei quali il costo del lavoro risulta molto più basso rispetto a quello dei Paesi occidentali.
Dall’altro, agendo in questo modo, si corrono due rischi di grande portata. Il primo è quello di ridurre, o addirittura smantellare, l’apparato produttivo di nazioni tradizionalmente manifatturiere, facendo prevalere il settore puramente finanziario che non può reggersi da solo.
Il secondo rischio è ormai diventato, invece, un pericolo reale. La delocalizzazione è infatti uno dei motivi della crescita economica impetuosa di Paesi come India, Brasile e Cina, dove al basso costo del lavoro si accompagna il disinteresse a volte assoluto per le condizioni in cui il lavoro stesso viene effettuato.
Non mi pare che le implicazioni del problema siano state comprese in Occidente in tutta la loro portata. L’analisi può piacere o meno, e si può concordare con essa in misura maggiore o minore. Tuttavia una riflessione seria e approfondita appare quanto mai necessaria, almeno se si intende contrastare il declino sempre più evidente della nostra capacità produttiva.
Seguiteci anche su www.persemprecalcio.it

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova