I guai della transizione elettrica. Come gli analisti più esperti avevano puntualmente predetto, la transizione “green”, o elettrica, rischia di causare più guai che benefici. A dispetto della glorificazione di Greta Thunberg, che in Europa è riuscita a conquistarsi una popolarità mediatica senza pari.
Il Parlamento della UE ha infatti approvato la normativa che prevede l’abbandono della produzione di veicoli a benzina e diesel entro il 2035. Si tratta di un indubbio trionfo dell’ecologismo estremo di cui la giovanissima attivista svedese è la rappresentante più celebre.
In teoria dovremmo tutti essere felici. Basta con le auto che inquinano. Finalmente vedremo percorrere le strade solo da veicoli elettrici che, oltre a non sporcare, sono pure silenziosi. Una rivoluzione epocale, trionfante a Bruxelles senza che Ursula von der Leyen e la sua Commissione si siano posti interrogativi circa le conseguenze.
Già, perché le conseguenze ci sono, e pure pesanti. Per fabbricare le batterie che fanno funzionare i veicoli elettrici, infatti, è necessario il litio, metallo reperibile soltanto in alcune parti del mondo e di cui l’Italia, naturalmente, è del tutto sprovvista.
Non a caso, il rettore dell’Università di Torino ha detto che l’Europa “ha preso una posizione talebana sull’energia”. Dal canto suo, il ministro Giorgetti sostiene che la tanto decantata transizione può condurre a una vera e propria “eutanasia industriale”. Non è certo facile riconvertire fabbriche – peraltro già in sofferenza – in tempi tutto sommato brevi. Cresceranno le tensioni sociali e con ogni probabilità anche la disoccupazione.
Ma dove si trova il litio, indispensabile per costruire le batterie che fanno funzionare non solo le auto elettriche, ma pure tablet e smartphone? I maggiori giacimenti europei si trovano nel Donbass, regione che Vladimir Putin vuole strappare all’Ucraina manu militari.
Poi lo troviamo in numerosi Paesi africani come Mali, Niger, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio e Namibia. Ne è ricca pure l’America Latina, in particolare con Argentina, Bolivia e Cile. E’ ovvio che tutte queste nazioni, fiutato il business, ci faranno pagare carissimo il prezioso minerale. E si pone inoltre il problema di costruire catene di approvvigionamento nuove di zecca.
Dulcis in fundo, a detenere una posizione di assoluta preminenza nella produzione delle suddette batterie è la Repubblica Popolare Cinese. E si conosce bene l’abilità commerciale dei cinesi, sempre pronti a sfruttare a proprio vantaggio le debolezze altrui, come hanno dimostrato con la globalizzazione. Per inciso, la situazione attuale spiega ancor meglio il grande interesse di Pechino per l’Africa e il Sud America.
Le idee di Greta, accolte in modo acritico dalle istituzioni UE, rischiano dunque di farci cadere dalla padella nella brace, nonostante l’entusiasmo politico e mediatico che le ha accompagnate.
In ogni caso diventa sempre più evidente la confusione che regna a Bruxelles, con un’Unione che si perde spesso nei dettagli trascurando i fatti davvero essenziali. L’unica speranza è che i Parlamenti nazionali reagiscano in tempo utile, costringendo von der Leyen e soci ad assumere una posizione più equilibrata.
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Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova