La democrazia senza fondamenti. Tra i tanti tentativi di riformulare la teoria politica contemporanea va indubbiamente annoverato quello del filosofo americano Richard Rorty. Anche dopo la scomparsa, avvenuta nel 2007, i suoi scritti vengono ripubblicati e continuano ad avere una larga diffusione.
Rorty non concorda con i molti autori che insistono sulla necessità di “rifondare” la teoria della democrazia. La sua opinione è che la democrazia non abbia – né richieda – fondamenti, e che l’idea di trovare per essa delle basi speculative sicure sia profondamente errata. E parimenti errato giudica il legame di filiazione che i più pongono tra la democrazia da un lato, e il razionalismo universalistico dell’Illuminismo dall’altro. Il modo più certo per fare cattiva filosofia politica è a suo avviso quello che si propone di “tenere insieme in una visione unitaria la realtà e la giustizia”, unendo la concezione – che è inevitabilmente personale – della responsabilità morale e politica con le determinanti ultime del nostro destino.
Rorty parte – penso giustamente – dalla constatazione che ogni visione totalizzante della realtà, che voglia piegare la prassi e la storia ad alcuni assiomi filosofici fissati a priori per costruire un ordine studiato a tavolino, non solo è destinata al fallimento, ma è pure foriera di guasti che superano di gran lunga i benefici che il filosofo aveva in mente di conseguire.
E’ sufficiente tutto questo a giustificare il relativismo? Sì, se prendiamo in considerazione il concetto rortyano di “ironia”. Quando gli viene chiesto perché la giudichi tanto fondamentale, il filosofo americano risponde che l’ironia, ancor più che nella vita pubblica, è fondamentale nella vita privata, giacché consente all’intellettuale secolarizzato di sentirsi non più un invididuo che si autoattribuisce il diritto di dire agli altri come debbano vivere, bensì “un figlio del proprio tempo”, ovvero un prodotto storicamente contingente nel senso che attribuiva a tale espressione il pragmatista John Dewey.
L’intellettuale che non adotta questo tipo di approccio alla realtà e alla vita “rischia di perdere il senso della finitezza e della tolleranza che risulta dal capire quante visioni sinottiche ci sono state e quanti pochi argomenti si possono dare per scegliere tra loro”. Si noti per inciso che Rorty usa il verbo “scegliere”, e questo fatto ci porta al cuore del problema che dobbiamo dirimere analizzando il suo “liberalismo ironico”. La scelta, infatti, è l’atto fondamentale che tutti noi dobbiamo compiere quando si tratta di giustificare la visione del mondo cui diamo la nostra adesione.
Se la struttura di un corpo politico e sociale è vista come una rete entro la quale ciò che conta sono soltanto le relazioni sussistenti tra i nodi che la compongono, allora è del tutto ovvio che ogni ricerca volta a trovare dei fondamenti sui quali si regge è votata al fallimento. Le relazioni “sono” i fondamenti, ma si tratta in effetti di fondamenti di tipo un po’ speciale.
Essi non potranno mai dirci in modo ultimativo quali scelte dobbiamo compiere in una certa occasione. Per scegliere, dovremo tenere gli occhi incollati su quanto fanno gli altri nodi della rete (ed essi, dal canto loro, dovranno fare lo stesso rispetto a noi), in quanto, in ultima analisi, il nostro destino non è individuale, ma relazionale. Il più piccolo movimento all’interno della rete si ripercuote, a ondate successive, su tutto il resto della struttura, e nessun nodo può ambire ad un ruolo primario: il centro è, al contempo, ovunque e in nessun luogo.
Rorty ci fa riflettere sull’estrema difficoltà di fondare la democrazia – e il liberalismo – su basi assolute, e occorre rilevare a tale proposito che la lezione di Max Weber è ancora valida. E’ chiaro che siamo in presenza di una proposta assai meno strutturata di altre che oggi dominano la scena filosofica, ma occorre pur rammentare che non sempre i progetti forti sono quelli più fruibili nella vita quotidiana.
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Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova