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Di Francesco Infranca

Zola, la Napoli calcistica ha memorie particolari da ricordare. Talmente affascinanti che pure parteggiando per altri colori non puoi fare a meno di apprezzare. Alcune ti fanno venire i brividi. Entrano sotto la pelle, scorrono in qualche modo nelle vene di tifosi o semplici appassionati. E se non ti prendono, allora significa davvero che hai poco calcio che ti fluisce dentro.

Questa è una storia di passione e magia. Ma anche di malinconia e rimpianto. Perchè Gianfranco Zola sembrava destinato a prendere il posto di Diego Armando Maradona in campo e nel cuore del popolo partenopeo. Invece il destino, sotto forma di irrisolvibili problemi economici, trasformò l’epica del racconto nel rammarico per eccellenza. Lo stato di decozione irreversibile della società partenopea costrinse Corrado Ferlaino, onde scongiurare il fallimento, a smembrare un gruppo che avrebbe potuto aprire un nuovo ciclo vincente.

I 13 miliardi versati dal Parma di Calisto Tanzi nelle asfittiche casse del Napoli ne posticiparono ancora per un pò la sopravvivenza. Da lì in avanti, invece, la carriera del trequartista di Oliena si dipanò tra i successi con i ducali e lo sbarco in Inghilterra. Il ChelseaMagic Box e la consacrazione internazionale. Addirittura, la nomina a membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. Ma questa è un’altra favola, che meriterebbe di essere raccontata. Ma non oggi…

Una canzone per te

All’ombra del Vesuvio incrociarono i loro occhi con quelli di Zola nell’estate dell’89. E da lì in avanti non li hanno più dimenticati. A quei tempi il sardo era semplicemente un prospetto in divenire. Una intuizione mercantile di Luciano Moggi e poco altro. Lontanissimo, dunque, dal giocatore dominante che avrebbe conquistato Londra e dintorni. Eppure quello sguardo attento aveva già dentro la scintilla della curiosità, la feroce determinazione di voler apprendere da El Más Grande.

Sullo sfondo, il talento elefantiaco del RE. Una presenza costante ed ossessiva, simile a una cometa rarissima, come quelle che passano nel firmamento ogni mille anni. Troppo grande ed ingombrante per chiunque. Impossibile non cercarne l’erede. Così, quando al Centro Paradiso arrivò questo sardo taciturno, gli Dei del Pallone decisero di impossessarsi della scena.

Al punto tale da spingere qualche anno dopo il cuore pulsante del tifo napoletano, le Curve del San Paolo, a ideare un coro dedicato interamente all’ex Torres, sulle note di “La Notte Vola”, di Lorella Cuccarini: “Vola… sotto la curva vola… la curva si innamora… Gianfranco Zola…“.

Partitina e tiri in porta

La leggenda narra che El Diez avesse una routine assai particolare, potremmo definirla personalizzata sulle sue esigenze. Il giovedì la squadra si riuniva a Soccavo per la classica “doppia”: allenamento al mattino, manicaretti di chef Maresca a pranzo. Quindi, riposino e classica partitina a ranghi contrapposti, infine doccia ristoratrice.

Ebbene, talvolta (eufemismo…) il RE disertava bellamente il programma mattutino. Più o meno autorizzato da Ottavio Bianchi. Si palesava, però, nel primo pomeriggio, quando le mani di Carmando provvedevano a distenderne i muscoli. A quel punto, la parola passava al terreno di gioco.

Chi ha avuto il privilegio di essere spettatore di quelle partitelle tra compagni, arricchite dai principali talenti del settore giovanile azzurro, potrà certificare quanto fossero combattute, tiratissime. Nessuno sentiva il bisogno di tirarsi indietro. Anzi, agonismo ed entrate ai limiti del regolamento erano una consuetudine.

Garantito, al contempo, lo spettacolo adrenalinico. Tocchi sontuosi e sopraffini mettevano d’accordo una città intera: il Napoli era una squadra bella come poche altre in quel tempo, nonchè contraddittoria come nessuna. Perchè comunque le situazioni extra campo alimentavano i demoni che il RE si portava dentro.

Zola e Diego, giovedì rivali

Eppure l’argentino aveva una maniera per scacciare i pensieri malevoli che l’assillavano. Una giocosa manifestazione di talento, misto a balistica.

La leggenda narra che Diego, terminata la partita, rimanesse in campo fino a sera inoltrata, per calciare da ogni posizione centinai di palloni.

Magari non subito, ma progressivamente, Zola conquista la fiducia di Dieguito, al punto da rendere immortale un attimo. Il Capitano gli chiede di fargli compagnia, in quella abitudine post allenamento. Un privilegio concesso veramente a pochi. Nel suo settennato all’ombra del Vesuvio, per esempio, in quella cerchia ristrettissima era stato ammesso Bruno Giordano. Per ammissione dello stesso Pibe, il più “sudamericano” tra i suoi compagni di squadra.

Questo è il momento esatto in cui si uniscono, confondendosi, realtà e mito. Gianfranco e Diego si sfidano con traiettorie bastarde ed assassine. Uno col destro, l’altro con il mancino. Il RE stenta a crederci, c’è qualcuno che gli tiene testa. Allora inventa tracce nuove, sperimenta approcci diversi all’attrezzo. Mentre il sardo, con coraggio, e senza alcuna presunzione gli tiene testa. Insomma, i due costringono Mimmo Cecere e Marco Morrone, portieri aggregati dalla Primavera, a raccogliere un mucchio di palloni in fondo al sacco.

Probabilmente, oggi che la frenesia del calcio moderno cancella ogni forma di sentimentalismo, e non si fa scrupolo di calpestare la passione dei suoi protagonisti, alla continua ricerca di storie nuove, un legame del genere sarebbe francamente impossibile.

A quel tempo, invece, non imperando ancora l’arroganza, si crearono le basi per dar vita ad una storia da tramandare oralmente ai posteri.

Una storia tutt’altro che anacronistica, che resiste al tempo e va ben oltre il valore del pallone: la storia di Diego e Gianfranco…

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