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Come scrive Jay S. Jacobs: “Tom Waits è il poeta laureato dei marinai
divorati dalla nostalgia di casa, dei commessi viaggiatori senza fortuna, delle
spogliarelliste – di chiunque cerchi riparo dalle delusioni della vita nel fondo
del bicchiere. Quella di Waits è la visione di un’America Gotica popolata di
eterni sconfitti, di anime perdute, di improbabili freak. A guidare questa
visione è la profonda conoscenza che l’artista ha di queste persone, di colui
che rifiuta di guardare dall’alto verso il basso.”

Trovo piuttosto azzeccata questa descrizione per introdurre un disco registrato
dal vivo, composto esclusivamente di brani inediti, che è incentrato su temi
quali “birra calda e donne fredde”, per citare ancora il bel volume di Jacobs,
dal titolo WILD YEARS – La vita e il mito di Tom Waits.

Nighthawks at the Diner venne registrato il 31 luglio 1975 e pubblicato dopo
tre mesi dalla Asylum Records. Il titolo dell’album è stato ispirato dal celebre
dipinto del 1942 di Edward Hopper, intitolato appunto Nighthawks. Nel disco,
primo doppio per Tom Waits possiamo ascoltare quattro sessioni realizzate
al Record Plant di L.A. di fronte a un piccolo pubblico, che venne allestito al
fine di ricreare l’atmosfera di un jazz club. Ha ricevuto il plauso della critica
per la sua riuscita impostazione dell’atmosfera, catturando l’atmosfera del
jazz club e la sua caratterizzazione. Tuttavia l’aspetto più importante è un
altro.

Il disco è composto da 18 brani, tutti inediti.

Suonano con Tom Waits: Mike Melvoin al piano, Pete Christlieb al sax
tenore, Jim Hughart al contrabbasso e Bill Goodwin alla batteria. Come per
il disco precedente, troviamo ancora una volta Bones Howe come
produttore. La foto di copertina, splendida, è di Norman Seeff, mentre
l’artwork è di Cal Schenkel.

L’album è stato ben accolto dalla critica, ed è considerato perfino il miglior
lavoro della sua prima parte di carriera. È incluso nel libro 1001 Album che
devi ascoltare prima di morire. Nel capitolo che accompagna il libro, Peter
Watts ha affermato che “sebbene possa risultare una presunzione divertente,
la falsa atmosfera da nightclub di Nighthawks cattura il fascino dei primi Waits
in maniera migliore rispetto ai due impressionanti album che l’hanno
preceduto. ” Si potrebbe definire esagerato, ma poi questo tipo di materiale
ha avuto il suo impatto attraverso un accumulo di dettagli vari, e chi può dire
quanto è troppo?”. Ha notato positivamente l’aggiunta di commedia e
recitazione da parte di Waits nel set.

“Abbiamo pensato ai club, ma quelli famosi come The Troubadour erano dei
bagni in quei giorni. Poi mi sono ricordato che Barbra La Streisand aveva
registrato un disco ai vecchi Record Plant Studios, quando erano sulla 3rd
Street vicino a Cahuenga Boulevard. C’era una stanza lì in cui aveva messo
un’intera orchestra. A quei tempi si giravano semplicemente le console dove
ne avevano bisogno. Così Herb e io abbiamo detto vediamo se possiamo
mettere tavoli e sedie lì dentro e ottenere un pubblico e registrare uno
spettacolo.”

Howe è stato responsabile dell’organizzazione della band per lo “spettacolo
dal vivo” e della creazione dell’atmosfera giusta per il disco:”Ho Michael
Melvoin al piano, ed è stato uno dei più grandi arrangiatori jazz di sempre; ho
avuto Jim Hughart al basso, Bill Goodwin alla batteria e Pete Christlieb al
sax. Era una sezione ritmica totalmente jazz. Herb ha distribuito biglietti a tutti
suoi amici, abbiamo aperto un bar, messo patatine sui tavoli e abbiamo fatto
il tutto esaurito, due sere, due spettacoli a notte, il 30 e il 31 luglio 1975.
Ricordo che l’atto di apertura era una spogliarellista di nome Dewana e suo
marito era un tassista. Quindi per lei la band suonava musica improvvisata – e
non c’è jazzista che non abbia mai suonato in uno spogliarello, quindi
sapevano esattamente cosa fare. Ma ha messo la stanza in esattamente
l’atmosfera giusta. Poi Waits è uscito e ha cantato Emotional Weather
Report. Poi si è girato verso la band e ha letto la sezione riservata del
giornale mentre suonavano. Era come Allen Ginsberg con una band
davvero, davvero buona.”

Interessante anche la testimonianza del bassista, Jim Hughart:
“Preparandoci per questa cosa, abbiamo dovuto memorizzare tutte queste
cose, perché Waits non aveva nulla sulla carta. Quindi, alla fine, abbiamo
passato quattro o cinque giorni in una sala prove a rivedere questa roba. E
quello era un lavoro faticoso. Ma quando lo abbiamo fatto in realtà prepara
tutto e vai a registrare, sono stati i due giorni di registrazione più veloci che
abbia mai trascorso in vita mia. È stato così divertente. Alcuni dei brani non
erano quelli che chiameresti brani jazz, ma per la maggior parte era come un
disco jazz. Questa era una jazz band. Bill Goodwin è stato un batterista che
è stato associato a Phil Woods per anni. Pete Christlieb è uno dei migliori
tenoristi jazz che siano mai esistiti. E il mio vecchio amico, Mike Melvoin,
suonava pianoforte. C’è una buona ragione per cui è stato accettato come un
disco jazz.”

Tra le canzoni citiamo On a Foggy Night, che ha l’atmosfera da vecchio noir
anni cinquanta, Better Off Without a Wife, uno dei brani più riusciti di questa
prima parte del repertorio di Waits, Warm Beer and Cold Women, la bella
cover di Big Joe and Phantom 309 di Tommy Faile e Spare Parts I (A
Nocturnal Emission) che segna la prima collaborazione in termini di scrittura
tra Tom Waits e il compianto e talentuoso Chuck E. Weiss. Chi vi scrive ha
da sempre una predilezione per questo brano di quasi sette minuti. Waits qui
sciorina la solita storia di disagiati, falliti e ubriaconi e l’atmosfera sonora che
sorregge la storia è libera, svolazzante, con la giusta frequenza dettata da
una sezione ritmica che al contempo sa essere energica e leggera, elastica
mentre funge da tappeto sonoro a questi pezzi di ricambio, che sono le vite
rovinate dei personaggi waitsiani. La capacità di scrittura impressionistica di
Tom qui assume livelli proverbiali. Si ride di gusto e ci si diverte non poco,
ascoltando queste storie di (mala) vita californiane dove lo sfondo è l’America
di Gershwin, di Edward Hopper, di Jack Kerouac e di Ray Charles. Il mito
sarebbe proseguito a lungo da qui in avanti.