“Casa Gospel”: il Vangelo elettronico di Tha Supreme e Mara Sattei
Tha Supreme e Mara Sattei tornano alle radici familiari e spirituali con un disco ambizioso, sperimentale, a tratti spiazzante. Tra gospel, urban, Disney e fede, costruiscono una casa sonora dove convivono beat, anima e memoria.
Il ritorno alle origini tra spiritualità, infanzia e produzione visionaria
Per molti artisti, l’idea di “casa” è qualcosa di sfumato, una sensazione, un ricordo, talvolta un trauma. Per Tha Supreme e Mara Sattei, fratelli nella vita oltre che nella musica, la casa è invece un punto di partenza preciso: le domeniche in chiesa protestante, la voce della madre nel coro gospel, i primi battiti del cuore musicale che li avrebbe portati dove sono oggi. È da quella memoria familiare che nasce Casa Gospel, un disco che tenta di trasformare l’intimità in progetto collettivo, la fede in sound design e il gospel in estetica pop 2.0. Pubblicato il 13 dicembre 2024, questo lavoro non è solo il loro primo album insieme, ma un esperimento sonoro e simbolico dove l’infanzia, la religione e il presente digitale si fondono. In otto tracce, i due fratelli Mattei aprono le porte di una casa che è allo stesso tempo spirituale e glitchata, sacra e trap, fatta di richiami al passato ma proiettata nel linguaggio di oggi. Il risultato è un’opera coraggiosa, difficile da classificare, che richiede tempo e attenzione per essere compresa appieno, ma che proprio per questo si distingue nel panorama musicale italiano.
Un inizio teatrale che disorienta, ma non è privo di senso
Le prime tracce dell’album destabilizzano. “Egli è il Re” e “Posto mio” rompono subito le aspettative di introspezione cupa e solenne, e si presentano con una teatralità sonora che ricorda più un musical Disney che un concept album sulla spiritualità contemporanea. Ma è proprio questo lo spiazzamento voluto: non c’è alcun desiderio di replicare le cupezze del gospel afroamericano à la Kanye West, quanto piuttosto di reinterpretare quei codici in chiave personale, italiana, e in fondo anche naïf. Il rischio è che questa scelta venga letta come ingenuità, ma nel contesto dell’identità artistica di Tha Supreme — sempre sospesa tra iperrealtà e cartoon digitale — l’approccio ha una sua coerenza. Eppure è difficile non sentire una certa disconnessione emotiva all’inizio, una distanza tra la solennità del riferimento (il gospel come linguaggio sacro) e la leggerezza quasi giocosa della messa in scena. È solo con “Bless su bless” che le cose iniziano ad assumere una forma più centrata: il brano sfrutta con intelligenza l’organo Hammond, integra il coro in modo più funzionale e restituisce quel dialogo spirituale promesso dal titolo, spostando l’album su un terreno più fertile.
Tra jazz, sperimentazione e una spiritualità non convenzionale
Con “Back to Back” il disco vira ancora, portando con sé un’incursione in territori quasi ragtime e jazz, con un’ironia che non nasconde però la sofisticazione della produzione. Il riferimento agli “Aristogatti” viene quasi naturale, ma dietro c’è molto di più: c’è il tentativo di rivitalizzare un genere cristallizzato, riportandolo nel presente con i mezzi dell’elettronica e del beatmaking. È in questo momento che Casa Gospel smette di cercare una coerenza lineare e si apre come spazio libero, dove la musica non risponde più a regole fisse ma segue il flusso dell’ispirazione. Questa libertà creativa viene però domata e riportata verso un’introspezione autentica a partire da “Come polvere”, probabilmente il vertice qualitativo ed emotivo dell’album. Qui la produzione si fa minimale ma densa di pathos: il contrasto tra le note alte e limpide del pianoforte e la tensione ritmica delle percussioni crea un paesaggio sonoro inquieto ma toccante. Il brano funziona perché riesce finalmente a fondere significato e suono, offrendo una riflessione sul dolore, sull’attesa, sull’invisibile, in una chiave poetica e non didascalica. Anche “So che ci sei”, pur più lineare e “cinematografica”, consolida questo ritorno all’interiorità, con una Mara Sattei finalmente protagonista, capace di portare delicatezza senza scivolare nel melenso.
Tha Supreme, il regista dell’anima glitchata. Mara, voce tra luce e misura
Che Tha Supreme sia il motore creativo del disco non è un mistero. La sua impronta si sente ovunque, dai tappeti sonori agli inserti glitch, dai tagli ritmici agli effetti vocali. A soli 24 anni dimostra un controllo sulla produzione che lo posiziona tra i più consapevoli del panorama italiano. Certo, a volte il riferimento al gospel sembra solo estetico, più decorazione che struttura, e alcune scelte risultano scollegate dal cuore concettuale del progetto. Ma nel complesso, l’ambizione viene sostenuta da una tecnica raffinata e da una visione chiara, anche quando sbilenca. Mara Sattei, da parte sua, gioca un ruolo più fluido. È nei momenti ritmici, nei brani dove il flow è protagonista, che la sua voce brilla davvero: “One King” ne è un esempio perfetto, un brano che unisce groove e spiritualità con un’efficacia rara, e che rappresenta uno dei picchi del disco in termini di immediatezza e qualità. Nei passaggi più melodici e lenti, però, il suo timbro rischia a volte di risultare troppo levigato, troppo perfetto, come se mancasse quella frizione emotiva che invece caratterizza le migliori prove vocali di artisti più “sporchi”. Ma è anche questa tensione tra misura e intensità che rende il dialogo tra i due interessante.
Un disco divisivo che forse troverà il suo tempo
Non si può negare che Casa Gospel sia un lavoro divisivo. Lanciato con una campagna promozionale enigmatica — chiavi lasciate per Milano, pre-order cieco, citofoni che trasmettevano spoiler del disco — il progetto si è proposto fin da subito come qualcosa di diverso, fuori dalle logiche commerciali più semplici. La critica si è spaccata: c’è chi ha visto nel disco un’operazione di coraggio e profondità emotiva, e chi lo ha giudicato poco coeso, talvolta forzato nei riferimenti religiosi, quasi più vicino a un esercizio di stile che a una confessione autentica. In realtà Casa Gospel è un disco che chiede tempo, forse anni, per essere compreso del tutto. Non è progettato per l’ascolto istantaneo né per le playlist. È un album che richiede uno spazio mentale diverso, una predisposizione meditativa che esula dalla fruizione rapida del pop odierno. E questo, oggi, è già un atto rivoluzionario. È un’opera che potrebbe non brillare subito, ma che ha tutte le caratteristiche per diventare, nel tempo, un progetto di culto. Non tanto per la qualità assoluta delle canzoni, quanto per l’intenzione profonda che lo anima: il desiderio di fare musica che venga da dentro, e non solo per restare fuori.